Riflessioni cliniche sul disturbo borderline di personalità

Sono molte le terminologie nosografiche delle psicopatologie a essere entrate a far parte del linguaggio comune tra le persone. Termini come depressione, attacchi di panico, narcisismo, paranoia (tra gli altri) sono spesso sulle labbra dei non addetti ai lavori, non di rado a sproposito.

Tra questi termini anche l’indicazione di personalità di tipo “borderline” è ormai un termine noto anche a coloro che non si occupano di salute mentale.

In questo articolo si intende fare un po’ di chiarezza su questo disturbo di personalità, osservato dal punto di vista clinico, integrando le recenti evidenze scientifiche circa la pregnanza criteriale di alcuni fattori salienti che possono aiutare i clinici a porre una corretta diagnosi di disturbo borderline di personalità (DBP).

Quella che segue è una breve analisi divulgativa su uno dei disturbi di personalità, che chiaramente non rappresenta indicazioni per procedere con una “auto-diagnosi”, soprattutto se non si è specializzati in materie psichiatriche, psicologiche o neuroscientifiche. Le diagnosi devono essere effettuate esclusivamente da personale specializzato.

Il disturbo borderline di personalità

Fino a non molti anni fa, il disturbo borderline di personalità (DBP) non disponeva di un inquadramento nosografico particolarmente delineato e preciso, a causa anche della difficoltà di lettura di quello che è un disturbo che presenta, in modo ondivago, aspetti che coinvolgono in momenti diversi l’area nevrotica e l’area psicotica.

Clinicamente parlando, tanto la classe diagnostica delle nevrosi (area psicopatologica di gravità inferiore) quanto la classe delle psicosi (area psicopatologica afferente a disturbi mentali gravi, come la schizofrenia) non hanno soddisfatto, da sole, l’inquadramento nosografico del disturbo di personalità borderline.

Hughes, già nel 1884, aveva evidenziato la copresenza di sintomi che collocavano il DBP “al limite tra la normalità e la follia“. Solo un secolo dopo, anche grazie al lavoro di Zanarini e coll. (1990), si è iniziato a delineare il DBP attraverso specifiche caratteristiche, grazie all’introduzione di termini operativi e diagnostici, ripresi nel DSM-5 (APA, 2013), producendo in tal modo utili descrizioni per noi clinici, che abbiamo potuto usufruire di definizioni più estese e articolate delle specifiche di tale disturbo.

Quadro psicopatologico del soggetto con disturbo borderline di personalità

Chi riceve diagnosi di DBP presenta un quadro psicopatologico complesso, nel quale il clinico, in accordo con la descrizione da DSM-5 (APA, 2013), rileva un pattern pervasivo di instabilità dell’immagine di sé, delle relazioni interpersonali e del tono dell’umore, oltre a una marcata impulsività manifestata nella prima età adulta ed esperita in diversi contesti e circostanze.

Proprio l’impulsività, che è una delle dimensioni psicopatologiche tipiche nel disturbo di personalità borderline, è stata oggetto di una ampia gamma di ricerche scientifiche condotte negli ultimi venti anni (Gunderson, 2018; Moeller, 2001; Sharma, 2014).

Moltissime ricerche sono state condotte anche sull’instabilità affettiva (Putnam e Silk, 2005; Koenigsberg, 2010), sul rischio suicidario e i comportamenti autolesionistici (Brown, 2001; Oumaya, 2008; Sher, 2016).

Quel “senso di vuoto” cronico

Disturbo borderline di personalità

Tuttavia c’è un criterio del DBP, tra quelli sistematizzati nel DSM-5, che non ha goduto di un riscontro altrettanto corposo dalla letteratura scientifica: il “sentimento cronico di vuoto“, settimo criterio del disturbo di personalità borderline (Millet, 2020).

La cosa è sorprendente soprattutto se consideriamo i dati circa la frequenza di tale dimensione nosografica: oltre il 70% dei soggetti con diagnosi di DBP è positiva a questo criterio, rispetto al 26-34% di coloro che non hanno tale diagnosi specifica (Grillo, 2001; Johansen, 2004).

Miller (2020), a seguito di una sua indagine sistematica sulla letteratura scientifica, indica che la causa della ridotta quantità di studi sul criterio del sentimento di vuoto nei pazienti con disturbo borderline di personalità possa essere riferibile a due fattori precisi:

  1. la difficoltà oggettiva di definire con precisione in ambito clinico il costrutto psicologico insteso come “assenza di esperienza”.
  2. la difficoltà di distinguere il sentimento di vuoto dai termini anglosassoni convenzionalmente usati in clinica, come:
    • hopelesness (perdita di speranza),
    • loneliness (solutudine),
    • boredom (noia, anedonia).

Si inizia pertanto a comprendere come il “senso di vuoto” sia uno degli aspetti mentali più complicati da descrivere in modo netto e preciso, proprio perché descrive qualcosa che non c’è, ovvero l’assenza dell’esperienza e della vitalità.

Ciò rende questo criterio trasversale a tutta una serie di quadri diagnostici psicopatologici come:

  • Disturbo Narcisistico di personalità (Kernberg, 1985);
  • Disturbo Depressivo Maggiore (Villarroel e Terlizzi, 2020; Klonsky, 2008);
  • Disturbi d’Ansia (Mann, Laitman, & Davis, 1989);
  • Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (Levine, 2012);
  • Disturbi schizofrenici (Zanderson e Parnas, 2018);
  • Disturbi dissociativi (Rallis, Deming, Glenn, Nock, 2012).

Inoltre, altre ricerche (Bandelow, Schmahl, Falkai, Wedekind, 2010; Ellison, 2016; Klonsky, 2008; Roos, Kirouac, Pearson, Fink, Witkiewitz, 2015) evidenziano come il senso di vuoto possa associarsi a condotte come:

Ma resta evidente come tale dimensione, nel DSM-5, sia inserita a livello di discriminante diagnostica solo nel Disturbo Borderline di personalità.

Come descrivere il “vuoto interiore”

Nel 2008 Gunderson ha descritto questo vuoto come una “sensazione viscerale percepita a livello dell’addome o del torace, senza apparente motivo, scopo o significato“. I pazienti con Disturbo Borderline di personalità ci riferiscono spesso frasi come “mi sento il vuoto dentro”, narrando una profonda sensazione cronica di apatia, mancanza di interessi, di vicinanza a un “burrone esistenziale” nel quale stanno per cadere.

Compatibilmente con questo tipo di descrizioni, i pazienti con DBP vivono di frequente stati mentali connotati da un distacco emotivo, che seprimentano in presenza di un conflitto tra un Sé indegno e un Sé intollerabile, che li porta ad allontanarsi da tutto e da tutti per potersi rifugiare in una specie di anestesia emotiva.

Questa condizione non è relativa a stati di noia o di angoscia; è piuttosto correlata a uno scollamento dalla realtà nel quale provano uno stato di pena con assenza di scopi (Carcione, 2016). Questa condizione risulta essere estremamente rischiosa, trattandosi di un momento nel quale può verificarsi un passaggio all’acting out (Ntshingila, 2016) finalizzato al tentativo di allontanarsi alla percepita mancanza di senso, e che può condurre a comportamenti impulsivi come:

  • abbuffate di cibo,
  • abuso di sostanze psicoattive,
  • comportamenti autolesivi,
  • ideazione suicidaria.

Inoltre questa instabilità, che va a connotare il quadro clinico del paziente DBP, va a influenzare anche la sua identità, portando verso la frammentazione del senso di sé. Ciò si manifesta chiaramente agli occhi del clinico sotto forma di varie difficoltà del paziente come:

  • riuscire ad autodefinirsi,
  • mantenere un senso del sé stabile e coerente nel tempo (spesso dimostrato da frequenti e improvvisi cambiamenti negli obiettivi, nei valori, nelle opinioni, nelle carriere o nelle relazioni),
  • difficoltà nella progettualità nel medio e lungo termine.

Queste difficoltà scaturiscono, secondo Manning (2011), dall’instabilità dell’immagine di Sé che produce le sensazioni di vuoto e di smarrimento interiore.

Come viene descritto il “vuoto interiore” dai pazienti con funzionamento borderline?

Elsner (2017) ha condotto uno studio nel quale ha raccolto le trascrizioni testuali delle modalità attraverso le quali i pazienti con funzionamento borderline descrivevano ai loro psicoterapeuti la sensazione di “vuoto interiore”.

Nello studio è emerso che tali descrizioni si dividevano in due dimensioni specifiche:

  • Esperienze somatiche di vuoto cronico:
    • “ho la sensazione di avere un buco dentro di me che mi attraversa dal petto alla schiena”;
    • “ho una voragine, un vero vuoto, dove è il mio cuore”;
    • “mi fa male il cuore”;
    • “è come un pozzo o una nuvola nera”;
    • “mi sento un guscio vuoto”;
    • “come un guscio d’uovo senza tuorlo”;
    • “è come avere un vuoto nel cervello”.
      .
  • Esperienze esistenziali di vuoto cronico:
    • “disperazione e nichilismo esistenziale”;
    • “un senso di inutilità”;
    • “c’è sempre qualcosa che manca”;
    • “sto cercando qualcosa che non c’è”;
    • “è come se avessi il pilota automatico”;
    • “provo costante disperazione”;
    • “sento che mi mancano molte cose che hanno gli altri;
    • “provo una angoscia esistenziale, senza scopo né significato”.

Quali strumenti psicometrici misurano il costrutto del “vuoto interiore”?

Come ausilio clinico per la valutazione del criterio diagnostico riferibile al “senso di vuoto interiore” ci sono alcuni test psicometrici anche se, in molti casi, questo elemento viene considerato solo attraverso un ridotto numero di item specifici.

  • UCLA Loneliness (Russel, 1996)
    Scala che misura sia il costrutto della solitudine che il costrutto del vuoto interiore, sebbene evidenze scientifiche recenti dimostrano la sostanziale differenza tra queste due dimensioni.
  • OMMP (Test di Orbach e Mikulincer sul Mental Pain Scale)
    Strumento che indaga sul costrutto del vuoto interiore, che viene indicato come perdita di significato soggettivo a causa del dolore mentale. Questo test, tuttavia, non misura l’esperienza cronica di vuoto nei soggetti con diagnosi di disturbo borderline.
  • SES – Subjects Emptiness Scale (Price et al., 2019)
    Test recentemente validato, che indaga efficacemente il costrutto di “vuoto interiore” come elemento transdiagnostico ai diversi disturbi mentali. Va tenuto conto che, come indicato da Miller, questo strumento è stato validato includendo pazienti con diverse diagnosi psichiatriche e per tale motivo sarebbe opportuno validarlo attraverso un campione specifico di soli soggetti con diagnosi DBP, al fine di comprende il livello di severità del c.d. “vuoto interiore” esperito.

L’importanza di definire clinicamente il “senso di vuoto” e il “vuoto interiore”

Con queste riflessioni e considerate le varie evidenze scientifiche, la definizione clinica del riferito “senso di vuoto” assume una rilevanza notevole per i clinici, in quanto risulta associato ad agiti pericolosi come l’autolesività e che in alcuni casi possono riguardare anche la sfera suicidaria.

Comportamenti che rappresentano in alcuni casi l’esito di un distacco assoluto dal mondo, ma anche un mezzo per presentificare o rappresentare tale distacco.

Attraverso questi agiti alcuni pazienti con DBP tenterebbero di intervenire sulla loro disregolazione emotiva, mentre per altri il dolore  derivante dai gesti autolesivi rappresenterebbe un dolore preferibile al senso di vuoto interiore cronico: il dolore al posto del “nulla”.

Pertanto, comprendere il senso del “vuoto interiore” rappresenta un indiscutibile vantaggio nella pratica clinica per l’inquadramento dei singoli casi da affrontare, orientando il trattamento da condurre con lo specifico paziente con Disturbo Borderline di Personalità, attraverso una maggiore chiarezza sui vissuti interni descritti dai pazienti.


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Crediti immagini: Peter Veeterzy, Clément Falize